Processo Parmalat: costituzione diretta delle parti civili ex 231/01

I.                   La questione dello spostamento di competenza ex art 11 c.p.p. per la presenza di Magistrati esercenti nel Distretto della Corte d’appello di Milano tra i danneggiati.


II.
                La questione della costituzione diretta di parte civile nei confronti degli enti giuridici responsabili amministrativamente  ex dlgs. 321/2001

Premessa.

I reati addebitati

Sono fondamentalmente:

1)      l’aggiotaggio , in quanto la diffusione di notizie false e le altre condotte erano idonee in concreto ad alterare sensibilmente il prezzo delle azioni e delle obbligazioni riferibili al Gruppo Parmalat, facendo conseguire  a detti strumenti finanziari un valore notevolmente superiore rispetto a quello che avrebbero potuto e dovuto esprimere (art. 2637 c.c.),

2)      l’ostacolo all’esercizio delle funzioni dell’autorità pubbliche di vigilanza, in particolare la Consob (art. 2638 c.c.) in relazione anche alle false comunicazioni al pubblico  ed alla  CONSOB (art. 114 ed 115 T.U. intermediazione finanziaria)

3)      Falsità nelle relazioni e nelle comunicazioni di società di revisione (art.2624 c.c.  comma 1 e 2)

Gli imputati

Sono fondamentalmente gli amministratori (facenti parte del cda) della Parmalat, oltre ad alcuni executives che hanno  materialmente commesso i fatti , oltre ad esponenti  della Bank of America e delle società di revisione, che si sono succedute negli anni dal 1999 al 20003, soggetti tutti che hanno agito tutti prevalentemente in concorso tra di loro.

Enti giuridici

Gli enti chiamati a rispondere, quali responsabili amministrativi ai sensi del del D.L.vo  231/01 per il fatto dei propri dipendenti,  in quanto non hanno predisposto ed implementato modelli organizzativi idonei ad evitare i fatti,  sono le società di revisione e la Bofa.   

Esiste poi un secondo filone d’inchiesta , che non si  è ancora formalizzato in una richiesta di rinvio a giudizio e che concerne altre banche per reati uguali o simili.

I.                   La questione ex art. 11 c.p.p.

Il Problema.

L’art. 11 c.p.p. prevede che “ i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiato dal reato” che sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario  compreso nel Distretto  di Corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni … sono di competenza del giudice del capoluogo di Distretto di Corte d’appello determinato dalla legge , secondo un’apposita tabella , che nel nostro caso prevede Brescia  su Milano.

 La difesa di un imputato ha “scovato” tra  le parti civili la presenza della signora XX, che esercita le funzioni di giudice di pace presso  l’ufficio di Milano ed ha chiesto lo spostamento del processo a Brescia. La signora XX ha revocato  la costituzione di parte civile ed ha dichiarato in  udienza di rinunciare anche per il futuro a qualsiasi pretesa civilistica nei confronti  degli imputati nel presente processo. Successivamente si è scoperto la presenza di un giudice presso il tribunale  di Milano  che ha fatto denuncia querela al P.M. per l’acquisto di titoli Parmalat e non ha ritirato tale denuncia..

Posizioni delle parti

A.   Gli imputati e gli enti responsabili amministrativamente.

Gli imputati e gli enti  hanno interesse al trasferimento del processo a Brescia, in quanto  a) ciò ritarda il processo,  b) il pool dei magistrati di Milano , che sostengono l’accusa, è particolarmente agguerrito ed esperto in questo tipo di reati,  c) il trasferimento a Brescia è un obiettivo intermedio  per il trasferimento del processo a Parma,  dove pensano di avere un ambiente più favorevole e comunque difendersi meglio concentrando le energie, avendo già in corso un’altra indagine per altri reati presso quest’ultimo Tribunale.

A sostegno della loro posizione adducono che la giurisprudenza interpreta la norma nel senso che è sufficiente che ci sia un danneggiato esercente la funzione di magistrato, togato od onorario, nel Distretto di  Corte d’appello di Milano tra gli azionisti od obbligazionisti, che hanno subito un danno dalla condotta degli imputati, per determinare lo spostamento del processo a Brescia.

Si precisa inoltre che è sufficiente l’esistenza oggettiva del danno, perché operi l’art 11, che appunto si richiama al concetto di persona offesa o danneggiato, indipendentemente dalle determinazioni soggettive dello stesso, e cioè dal fatto che si sia costituito o meno parte civile o che sia presente concretamente nel processo.

Si tratta di una norma che tutela non solo il danno effettivo sulla serenità del giudice, per evitare che  decida con effetti sugli interessi  di un collega, ma anche del pericolo che sia turbata tale serenità , anche in relazione alla necessità che il Giudice non solo sia imparziale, ma debba essere considerato imparziale anche dalla collettività.

Infine  l’irrilevanza dei comportamenti soggettivi del danneggiato è ricondotta al principio costituzionale del giudice naturale (art.25 della Costituzione), per cui l’imputato deve essere giudicato dal giudice prestabilito sulla base di criteri oggettivi  e non essere sottoposto all’arbitrio individuale che potrebbe determinare lo spostamento del processo attraverso scelte soggettive di manifestazione di volontà o di comportamenti.

B.        Le Parti Civili ed il Pubblico Ministero

Le parti civili hanno invece interesse che il processo resti a Milano per le ragioni opposte a quelle degli imputati ed inoltre perché lo spostamento determinerebbe il rifacimento di tutte le onerose attività già svolte.

Si fa notare che il giudice in questione ha revocato la costituzione di parte civile ed ha espressamente rinunciato ad ogni futura azione di risarcimento contro gli imputati per i  fatti oggetto del processo, per cui non c’è più nessun concreto pericolo di turbativa della serenità di giudizio.

Per quanto riguarda il secondo giudice, che non ha ritirato la denuncia, si fa notare  che non è presente nel processo di Milano come parte, avendo solo sporto denuncia ma senza costituirsi parte civile, e se in futuro vorrà agire per il risarcimento dei danni potrà farlo a Brescia, senza che ciò incida concretamente sullo svolgimento dell’attuale processo. Inoltre, data la particolare natura del processo , visto che il numero dei potenziali danneggiati è superiore ai centomila soggetti, obbligazionisti od azionisti di Parmalat , non c’è nessuna ragionevole sicurezza che nessun giudice togato od onorario non eserciti le sue funzioni in nessun distretto di Corte d’Appello italiana, per cui il processo non potrebbe essere praticamente celebrato in alcuna sede.

 A parte il discorso pratico, si fa pure notare che l’impossibilità di celebrare il processo si tradurrebbe in un ‘impossibilità di accesso al Tribunale, o quantomeno una eccessiva difficoltà, per cui l’interpretazione così ampia ed astratta del concetto di danneggiato si tradurrebbe in una violazione delle norme europee, che stabiliscono il diritto di accesso al Tribunale.

Giudizio critico

A mio modesto parere non basta a giustificare l’inapplicabilità dell’art.11 c.p.p. al presente processo il fatto che il pericolo di influenzare il giudizio sia solo astratto, ma in concreto non esista,  in quanto la costituzione di parte civile è stata revocata. In tal modo  si fa dipendere  la competenza del giudice dalle determinazioni soggettive di singoli individui ed inoltre non si supera l’obbiezione  che  il concetto di danneggiato è oggettivo e prescinde dalla costituzione o meno di parte civile.

Maggiore peso mi sembra abbia l’argomentazione della eccessiva difficoltà , se non impossibilità di trovare una sede “immune” dal problema dell’art.11, soprattutto se si considera che ciò può tradursi in una negazione del principio comunitario del diritto di  “accesso del Tribunale”. Sul piano concettuale credo però che si debba fare un passo avanti  sul concetto di danno e danneggiato nel caso di questo e simili processi, che all’estero sono affrontati con l’approccio della “class action”.

Occorre infatti considerare il particolare tipo di danno oggetto del presente processo . Si tratta di un danno diffuso che colpisce non singoli individui ma una classe di essi , o meglio due classi, gli  azionisti e gli obbligazionisti della Parmalat .

I danneggiati pertanto non vengono in rilevo nelle loro  qualità bio-grafiche (per rifarci alla distinzione tra bios e zoe di Nietzsche relativamente alla distinzione tra protagonisti e coro nella tragedia greca), come quella di giudice  o altro, ma come componenti di una massa indifferenziata, sono cioè degli elementi di una classe.

 In sostanza, sotto questo profilo, e solo per  quanto riguarda i risarcimenti, ci troviamo strutturalmente e sostanzialmente di fronte ad una class action. Il sig. XXX o la signora XXY sono il numero ZZZ  e non il giudice AAA.  Come  elementi di una classe e non individui non possono creare in concreto ed oggettivamente, indipendentemente dalle loro determinazioni e comportamenti soggettivi,  né pericolo né danno per la serenità di giudizio del Giudice,interesse tutelato  dall’art. 11 in questione, che deve essere interpretato secondo la sua ratio, applicata a questo particolare processo.

L’indeterminatezza  e la presenza di danneggiati individuati solo per caratteristiche di classe e non dei singoli individui si traduce anche nella impossibilità concreta di determinare individualmente tutti i danneggiati e quindi  di celebrare il processo, in contrasto con il principio comunitario (espressione dei fondamentali diritti umani) dell’accesso al Tribunale.

Andando ancora avanti nel discorso si può anche affermare, anche  in una logica de jire condendo, che sotto questo  profilo il concetto di class action assurge a vero e proprio criterio di salvaguardia dei diritti umani e non solo di risoluzione pratica di conflitti d’interesse. In altre parole la class action, per certi fatti illeciti, non è una libera scelta legislativa  dei singoli  Stati, ma una necessità per  una comunità che voglia tutelare i diritti umani sul piano concreto.

II.La costituzione diretta contro gli enti chiamati a rispondere amministrativamente ai sensi del decreto l.vo 231/01 

Premessa. Il contenuto del D.L.vo 231/01

Si tratta di un atto legislativo importante, che inserisce per la prima volta nel nostro ordinamento un principio di responsabilità come conseguenza degli illeciti commessi da coloro che, avendone il potere, agiscono in nome e per conto dell’ente rappresentato. ( nel nostro caso : le società di revisione e la Bank of America).

Si tratta di reati specifici, tra cui rientrano quelli di aggiotaggio e gli altri oggetto del processo di Milano.  Alla tradizionale responsabilità per il reato commesso – responsabilità penale personale, che non può che riferirsi alle persone fisiche, si affianca ora una responsabilità della persona giuridica (o soggetto equiparato), che tende ad un avvicinamento delle persone giuridiche a quelle fisiche, pur nella diversità del sistema sanzionatorio applicabile, relativamente all’area dei comportamenti penalmente rilevanti.

Sulla base di ciò la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale, competente per reati dai quali gli stessi dipendono.
 Per il procedimento di accertamento dell’illecito amministrativo dell’ente si osservano le disposizioni sulla composizione del tribunale e le disposizioni processuali collegate relative ai reati dai quali l’illecito amministrativo dipende.

Le disposizioni generali stabiliscono due principi fondamentali:

–  il primo riguarda le disposizioni processuali applicabili e colloca, accanto all’osservanza delle norme specificamente dettate in materia dal capo III, le disposizioni del codice di procedura penale e del Dlgs 271/1989 in quanto compatibili;

–  il secondo chiarisce e specifica che all’ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni processuali relative all’imputato.

Il problema

 Il problema è se sia ammissibile la costituzione diretta di parte civile nei confronti dell’ente chiamato a  rispondere per i fatti dei suoi dipendenti o se sia necessario per coinvolgere l’ente, come per tutti  gli altri responsabili civili, richiedere al Giudice il decreto di citazione a giudizio e notificarlo al Pubblico ministero, oltre che agli enti e a tutti gli imputati con notevole aggravio di tempo e di spese, oltre al rischio di vertenze ulteriori per questioni procedurali attinenti alle notifiche.

La posizione degli enti (accolta dal Giudice): inammissibilità della costituzione diretta di parte civile.

Tale inammissibilità si fonda sui seguenti principali ordini di motivi.

Punto di partenza è la disciplina prevista dai codici penale e di procedura penale  in materia di esercizio dell’azione civile nel processo penale.  Gli articoli 74 c.p.p e 185 c.p. prevedono che ai fini delle restituzioni e del risarcimento del danno la legittimazione attiva spetta al danneggiato dal reato, quella passiva all’imputato/colpevole ed al responsabile civile , ossia al soggetto che, in base alle leggi civili deve rispondere per il fatto  del colpevole.

L’ambito di applicazione dell’istituto è pertanto ben delineato dalle dette norme: presupposti sono la commissione di un reato, l’esistenza di un danno patrimoniale o non patrimoniale, quale conseguenza diretta ed immediata del reato, la sussistenza di una responsabilità disciplinata dalla normativa civilistica in capo a soggetto diverso dal colpevole. Già il richiamo alla detta disciplina evidenzia come l’ente chiamato a rispondere nel processo penale ai sensi del D. L.VO 231/01 non è soggetto a pretesa risarcitoria avanzata dalla parte civile. Esso, infatti, non è né l’autore del reato né soggetto, che, sulla base del detto D. L.VO, può essere chiamato a rispondere civilmente per il fatto del colpevole. Quest’ultima responsabilità potrà sussistere , ove ne ricorrano i presupposti, nella veste di responsabile civile ed in base alla disciplina appositamente dettata dal codice per quest’ultimo soggetto processuale.

La disciplina del D. L.vo 231 infatti si riferisce alla responsabilità amministrativa dell’ente per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Ripetutamente la normativa in questione parla di responsabilità amministrativa. Accertata la detta responsabilità amministrativa non vi è spazio perché l’ente sulla base della stessa, possa essere chiamato a rispondere civilmente per le restituzioni o il risarcimento del danno. Sicuramente non lo può fare sulla base degli artt. 185 c.p. e 74 c.p.p., in quanto l’ente non è l’autore del reato ma di un comportamento differente e  ben distinto dal medesimo.

Contro tale affermazione occorre ribadire che sulla base del collegato disposto dell’art.2043 del cod. civ. e del D.L.vo 231, anche se il fatto non è considerato reato, è un fatto illegittimo e quindi automaticamente soggetto all’art.2043,  in quanto costituisce fatto ingiusto. Ne consegue che “l’imputato” di tale fatto , non reato, nel caso ne venga accertata, con gli strumenti del processo penale (e non di quello amministrativo), la responsabilità, diventa automaticamente soggetto alla responsabilità civile per fatto illecito proprio (e non altrui). Il legislatore stabilisce che tale iniuria venga accertata, non in via incidentale, in un processo civilistico, ma direttamente con gli strumenti del processo penale, dotati di maggiore incisività. Ciò risulta dei principi generali del decreto visti in premessa che  tendono ad assimilare il più possibile l’ente alla persona fisica e che trovano una precisa esplicitazione nell’art. 35, che assimila l’ente all’imputato ai fini processuali.

Non si tratta quindi di applicare un’analogia in malam partem  sul piano sostanziale, rendendo responsabile civilmente , per analogia, chi non lo è, ma di stabilire le conseguenze dirette del fatto illecito sul piano della responsabilità civile, attraverso gli strumenti della procedura penale nel corso del procedimento penale (art. 74 e 76 del c.p.p.)

Un secondo ordine di motivi per negare l’ammissibilità di cui sopra   si fonda sul fatto che  il dettato normativo  del D. L.vo 231/01 da un lato non prevede né richiama l’istituto della costituzione di parte civile, fatto significativo posto, che la detta normativa disciplina molteplici istituti paralleli a quelli penali e processuali(si pensi ad esempio, al principio di legalità, alla successione delle leggi, al sistema sanzionatorio, a quello cautelare, alla prescrizione, alla contumacia, ecc. ), d’altro lato specifiche disposizioni di legge, che nella legge processuale penale  menzionano la parte civile, o comunque fanno ad essa riferimento, sono ribadite nel decreto in questione senza alcun riferimento  a quest’ultimo soggetto processuale.

 Ed infatti : l’art 54 del decreto, relativo al sequestro conservativo prevede tassativamente che possa essere richiesto al PM in relazione alla dispersione  delle garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria.  Si tratta di norma che ricalca l’art.316 c.p.p., che consente analoga richiesta alla parte civile in relazione alle obbligazioni civili derivanti da reato.

 L’art. 54 non solo non prevede alcun potere in capo alla parte civile, ma, nel richiamare espressamente la disciplina del sequestro conservativo del c.p.p. , con riferimento all’art. 316 limita il richiamo relativo al quarto comma ,tralasciando il comma secondo (ovvero quello che consente la richiesta anche alla parte civile) ed il terzo comma (che stabilisce che il sequestro richiesto dal PM giova anche alla parte civile), a conferma che  non si tratta di norma che semplicemente omette  di prevedere un potere di una parte processuale, che comunque potrebbe essere presente nel procedimento contro l’ente, ma di norma che segnala inequivocabilmente che la detta  parte non può agire nei confronti dell’ente imputato dell’illecito amministrativo.  Oltre all’art 54 vengono citate altre norme del decreto , in particolare nella sezione I del Capo II, dove si fa riferimento alla responsabilità patrimoniale dell’ente. La norma (art. 27) sancisce che l’ente risponde con il suo patrimonio per il pagamento della sanzione pecuniaria (nessun riferimento, quindi, al danno risarcibile) .

L’ art 69 prevede che , in caso di  condanna , il giudice applica all’ente le sanzioni e lo condanna al pagamento delle spese processuali. Nessun riferimento al risarcimento del danno laddove il c.p.p .prevede un’articolata normativa in tema di decisione sulle questioni civili (art. 538 e segg. C.p.p.).

 In tema di archiviazione poi l’art. 58 non prevede , così come l’art. 408 comma 2 c.p.p., alcun avviso alla persona offesa della determinazione del pm di procedere alla archiviazione del procedimento (laddove la persona offesa è frequentemente anche danneggiata dal reato ed è quindi una  potenziale parte civile che ha interesse all’esercizio dell’azione penale onde poi esercitare l’azione). Sulla stessa linea si pone l’art. 61 comma 2 del  decreto, che stabilisce ciò che deve contenere, a pena di nullità, il decreto,  che dispone il giudizio nei confronti dell’ente. Alcun riferimento viene fatto alla indicazione di parti differenti dall’ente, laddove il corrispondente art. 429 comma primo lettera a) del c.p.p. stabilisce che oltre alle generalità dell’imputato , il decreto deve anche indicare quelle delle altre parti private (tra cui , appunto, la parte civile).

Particolarmente significativa la norma di cui all’art. 59 del decreto : essa prevede , attraverso il rinvio all’art. 405 c.p.p., che la contestazione da parte del PM all’ente dell’illecito amministrativo viene fatta in via ordinariamediante la richiesta di rinvio a giudizio. Detta contestazione deve contenere gli elementi identificativi dell’ente,  l’enunciazione in forma chiara e precisa del fatto che può comportare l’applicazione delle sanzioni amministrative , l’indicazione del reato, da cui l’illecito dipende e dei relativi articoli di legge e delle fonti di prova: manca però del tutto l’indicazione della persona offesa , laddove l’art.  417 c.p.p. la prevede.

Sulla base di questa analisi , considerando  che si tratta di norme di rilevante  importanza per la parte civile, in quanto dirette a garantire proprio il soddisfacimento della pretesa civilistica, ossia il risarcimento, si conclude che  il fatto che non siano ribadite dal d.l.vo 231/01 non può essere considerato una mera dimenticanza dal legislatore: si tratta di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa di non prevedere nel procedimento in questione la parte civile.

 Tale conclusione non ci sembra però  valida. Innanzitutto,  sul piano strettamente logico e formale, le norme di cui sopra non implicano necessariamente l’esclusione della parte civile dal procedimento de quo; l’argomento a contrario sul piano logico implica infatti che se è vero A ( nel caso per es. la non attribuzione del sequestro alla parte civile) non possa essere vero B (nel caso la presenza della parte civile nel processo) ma ciò non è necessario in quanto ben può esserci nel processo la parte civile, anche se  senza poteri sul sequestro … e così per gli altri istituti.

Ma anche sul piano sostanziale le lacune di cui sopra hanno una logica spiegazione.

Si deve infatti tener conto che il tipo di danno diffuso causato dal fatto oggetto di accertamento, coinvolgente un numero indefinito di soggetti,  non permette di  concedere in capo ad essi delle situazioni soggettive il  cui utilizzo renderebbe estremamente difficoltoso, se non impossibile lo svolgimento del processo (come il sequestro o l’avviso alla persona offesa del decreto di archiviazione). Ciò non vuol dire che il legislatore non si sia preoccupato di tutelare gli interessi dei danneggiati in maniera diretta nel processo. 

La tutela avviene in maniera generale attraverso la norma, che prevede di ottenere da parte dell’ente la riduzione o l’esclusione delle sanzioni pecuniarie ed interdittive (quelle più gravi, soprattutto per gli enti economicamente più forti)  con il risarcimento ai danneggiati (art. 12 e art. 17). E’ ovvio quindi che la ratio generale del decreto è quella di tutelare l’interesse al risarcimento dei danneggiati dal fatto illecito almeno tanto quanto l’interesse alla punizione amministrativa dell’ente.

 A nostro parere anzi la norma postula che i danneggiati debbano essere presenti direttamente nel processo nella maniera più semplice possibile e che il loro interesse si affianchi direttamente a quelli del P.M. , proprio come la parte civile. 

Altrimenti come fa il giudice a valutare se i danneggiati sono stati risarciti in maniera efficace?   Al limite le eccezioni poste dagli enti alla costituzione di parte civile nel processo dimostrano invece una volontà di non voler adoperarsi con ogni mezzo ad un risarcimento efficace dei danneggiati (che sono di tutti i danneggiati, o il maggior numero possibile, e quindi non dovrebbero invece cercare di escludere la maggior parte possibile degli stessi con limitazioni burocratiche ed aggravi di spese). 

La nostra posizione

Il principio ispiratore del decreto  (  e qui sta la grande innovazione) è quello di affiancare ora una responsabilità della persona giuridica (o soggetto equiparato), che tende a un avvicinamento delle persone giuridiche a quelle fisiche, pur nella diversità del sistema sanzionatorio applicabile, relativamente all’area dei comportamenti penalmente rilevanti.

Sulla base di ciò la competenza a conoscere gli illeciti amministrativi dell’ente appartiene al giudice penale competente per reati dai quali gli stessi dipendono.
Le disposizioni generali stabiliscono due principi fondamentali:

il primo riguarda le disposizioni processuali applicabili e colloca, accanto all’osservanza delle norme specificamente dettate in materia dal capo III, le disposizioni del codice di procedura penale e del Dlgs 271/1989 in quanto compatibili;

il secondo chiarisce e specifica che all’ente si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni processuali relative all’imputato.

 Sia i principi generali che le disposizioni positive  non lasciano spazi a dubbi. 

La procedura d’accertamento della responsabilità amministrativa dell’ente è, in linea di principio, in virtù del richiamo contenuto nell’articolo 34,  quella prevista dal codice di procedura penale per l’accertamento della responsabilità dell’imputato.

Si tratta di una responsabilità quindi da accertarsi nel processo penale e che dà origine al risarcimento dei danni (come afferma indirettamente anche l’art.12 del decreto 231, oltre l’art. 2043. cod .civ.) e che quindi legittima la costituzione di parte civile nel processo de quo (art 76 c.p.p.).

D’altra parte anche la richiesta di citazione  del responsabile civile presuppone la costituzione di parte civile, che quindi deve essere presupposta anche nel processo .

 A questo punto il discorso si sposta sul piano processuale e cioè  sul come far intervenire nel processo, ai fini del risarcimento dei danni, il responsabile dell’illecito, non reato, ma nondimeno fonte di responsabilità civile. L’ente è dal punto di vista della sua situazione soggettiva processuale equiparato all’imputato.

L’ art. 74 c.p.p. ed ancor più l’art.76 c.p.p. quindi non  vengono estesi per analogia perché sono collegati direttamente all’ art. 35 del dlgs. 231/2001, il quale richiama materialmente tutte le norme che si riferiscono all’ imputato, coerentemente con il combinato disposto degli art. 35 di cui sopra , 60 c.p.p. e 61 c.p.p. Tale ultimo articolo poi non si riferisce solo alle garanzie, ma, tramite il suo secondo comma, a ”ogni altra disposizione relativa all’ imputato , salvo che sia diversamente stabilito.”

Da nessuna parte è stabilito che l’art.74 sfugge alla leggi dell’art. 60, 61 c.p.p. e 35 dlgs. 31 /2001.  Quindi c’è addirittura un doppio richiamo materiale dell’art. 74 e76 alla situazione del  responsabile amministrativo, che processualmente è trattato come un imputato. La limitazione di questa assimilazione alle norme compatibili non ci sembra escludere dalle stesse l’art.74 e 76 c.p.p., in quanto non c’è alcuna incompatibilità logica.

Il concetto di incompatibilità implica una esclusione logica da parte di altre norme, che nel caso non esistono. Ma non c’è neppure una incompatibilità sistemica; gli argomenti sistemici visti sopra (e cioè la mancata menzione della parte civile e la mancata  attribuzione nel decreto 231 di alcuni poteri rilevanti , normalmente attribuiti alla stessa ) trovano una logica spiegazione nel tipo di danno diffuso  che ha consigliato il legislatore a tutelare gli interessi dei danneggiati in via generale attraverso la riduzione delle sanzioni pecuniarie ed interdittive, subordinata al risarcimento dei danneggiati. Anzi con quest’ultimo istituto i danneggiati fanno ingresso nel processo, pena la impossibilità di riparare o adoperarsi per riparare efficacemente i danni causati dall’illecito.

 Il sistema è logicamente costruito nell’equiparazione della persona, di cui è richiesto il rinvio a giudizio con l’imputato  e tale fatto è rafforzato dall’art.35 d cui sopra. Tale equiparazione del resto è perfettamente logica : si fonda sulla considerazione che gli enti sopra citati hanno una responsabilità diretta nel processo penale,  e quindi sono  processualmente anche se non penalmente,” imputati”,  in virtù del d.lgs. 231/2001. Tale responsabilità è per fatto proprio sulla base dell’art. 5. combinato con il 25 ter del dlgs. 231 cit.; non c’è quindi nessun bisogno di ricorrere all’ analogia e tanto meno in malam partem, perché non è estesa agli enti una responsabilità per danni, che non avrebbero se non fossero imputati. La responsabilità per danni deriva automaticamente dal fatto di aver recato un danno ingiusto ex art. 2043 c.c.

Dal punto di vista processuale, per la loro chiamata in giudizio per i risarcimenti, più che la distinzione tra responsabilità civile penale o amministrativa è determinante la distinzione tra responsabilità diretta (dell’imputato e del responsabile ex decreto 231) e responsabilità indiretta (del responsabile civile per fatto altrui -art. 83 c.p.p.).

Il responsabile civile non è parte processuale, se non viene citato dalla persona offesa del reato, e l’atto di citazione deve essere notificato al P.M .Il responsabile amministrativo ex dlgs 232/2001 è responsabile per fatto proprio e viene chiamato in causa direttamente dal P.M.

Non ha senso quindi né in termini logici né di economia processuale che debba essere citato per prendere parte ad un processo di cui è già parte, né tanto meno che la citazione sia notificata al P.M., visto che lui stesso lo ha già chiamato in giudizio.

Anziché scardinare i principi del diritto processuale, la possibilità di ottenere il risarcimento del danno da parte di danneggiati da particolari reati di tipo diffuso tramite la costituzione di parte civile senza dover incorrere nelle spese e nelle formalità burocratiche di inutili autorizzazioni e notifiche a chiamare in causa chi già lo è, ci sembra un passo avanti, anche se timido, nell’avvicinare la giustizia ai cittadini sul piano concreto. Si attende comunque la approvazione di una legislazione sulle class actions, di cui il decreto 231 è una timida, seppur significativa anticipazione.

Alla giurisprudenza il compito di raccogliere lo stimolo e di non insabbiare il tutto sotto una valanga di formalità burocratiche, che gonfiano i fascicoli, procurano spese, producono vertenze sulla regolarità di notifiche inutili, quando nessun diritto sostanziale viene leso.


Avv. Giuseppe Tarditi