Il fine dell’impresa: profitto o responsabilità sociale?

Tradizionalmente il fine dell’impresa è stato sempre considerato il profitto. Oggi tra i fini dell’impresa si parla molto di Responsabilità sociale (Corporate social responsibility) ( CSR ), soprattutto nei confronti degli stakeholders.
Con la separazione della titolarità dell’impresa (padrone e poi azionisti ) dalla titolarità del potere effettivo, (management), come già osservava J.K.Galbraith, si assiste ad una divaricazione del fine dell’impresa in quanto gli azionisti tendono a massimizzare il profitto mentre il manager tende a massimizzare il potereimpegnando le aziende in processi di crescita in tutte le direzioni,anche a scapito del profitto.

Dopo aver accontentato gli azionisti con dei dividendi decenti, il manager mirava solo ad allargare il giro d’affari e l’organizzazione per incrementare la sua sfera di influenza. Queste situazioni non ottimali da un punto di vista economico hanno attirato l’attenzione degli analisti finanziari e degli investitori che hanno individuato le aziende che avevano un potenziale di profitto inespresso a causa della inefficienza del management. Si è assistito quindi ad un processo di acquisizioni di imprese a prezzi più alti di quelli espressi dal mercato borsistico, ma notevolmente inferiori al valore potenziale, seguite da ristrutturazioni aziendali, portate avanti con particolare durezza. Di nuovo la massimizzazione il profitto è diventato il verbo imperante. .Accanto a questo processo e, forse spinti dalla durezza dello stesso,si sono lentamente affermate delle visioni di tipo etico dell’azienda .In particolare si è sempre più parlato di responsabilità sociale d’impresa (o Corporate Social Responsibility, CSR ) riferendosi all’integrazione di preoccupazioni di natura etica all’interno della visione strategica d’impresa,come manifestazione della volontà delle grandi, piccole e medie imprese di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al loro interno e nelle zone di attività.
A tale logica ha reagito in modo particolarmente lucido Milton Friedman nel suo famoso articolo The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits pubblicato in The New York Times Magazine September 13, 1970, in cui critica gli uomini d’affari che credono di difendere la libertà d’impresa quando declamano che il business non concerne soltanto il profitto ma deve anche promuovere fini sociali, che ha una coscienza sociale e deve prendersi la responsabilità di procurare posti di lavori,eliminare discriminazioni, evitare inquinamento ecc., . Così facendo essi predicano puro socialismo e rafforzano le logiche che minano le basi di una società libera.
La discussione sulla ” social responsibility of business “( CSR ) manca completamente di rigore. Cosa significa dire che il “business” ha responsabilità? Solo le persone hanno responsabilità. Le società sono persone artificiali ed in tal senso possono avere responsabilità artificiali ma il mondo degli affari”, preso come insieme, non può avere responsabilità , neppure in questo vago senso. Il primo passo per fare chiarezza sulla dottrina della responsabilità sociale ( CSR ) del mondo degli affari è chiedersi esattamente cosa essa implichi e per chi. Gli individui che devono essere responsabili presumibilmente sono gli azionisti o il management delle società. In un sistema di libertà di impresa questi ultimi sono dipendenti ed hanno la responsabilità nei confronti degli azionisti di condurre il business in conformità dei desideri di questi ultimi,che generalmente sono quelli di far profitto il più possibile conformandosi solo alle regole fondamentali della società,sia quelle incorporate nelle leggi che nella morale. Anche nel caso che il datore di lavoro abbia scopi diversi dal profitto come le scuole o gli ospedali,i dipendenti devono tendere al soddisfacimento di questi fini, anche se non sono il profitto,ma sono sempre i fini degli azionisti . Il punto è che comunque il manager agisce per conto degli azionisti e non per proprio conto. Naturalmente il manager ha,come persona delle responsabilità che riconosce o si prende volontariamente,verso la sua famiglia,la sua coscienza, i suoi sentimenti la sua città ecc. , e può riferirsi alle stesse come a “responsabilità sociali”ma in tal caso egli agisce come padrone, consuma suoi denari ed energie. La sua responsabilità sociale come manager invece è di agire nell’ interesse dei suoi azionisti. Cosa significa ciò in pratica ? Per esempio egli non deve aumentare le spese per ridurre l’inquinamento oltre quanto è nel miglior interesse della propria compagnia o richiesto dalla legge solo per contribuire all’ obiettivo sociale di migliorare l’ambiente, a spese del profitto aziendale. Diversamente il manager spende i soldi dei suoi azionisti, non i suoi,per raggiungere fini “sociali”,mentre gli azionisti li avrebbero spesi diversamente(magari anche per fini sociali,ma di loro volontà e con obiettivi diversi). In tal modo il manager effettivamente impone loro delle tasse, da una parte ed inoltre ,dall’ altra decide come i proventi delle stesse devono essere spesi;in pratica fa la funzione di legislatore (impone tasse),esecutivo (decide come spenderle) e giudiziaria(interpreta le leggi a modo suo), senza farsi eleggere ed in spregio ad ogni logica politica.
A parte la mancanza di legittimazione il manager non ha neppure le capacità per investire nel sociale. Egli infatti è un esperto di come condurre un’impresa o nella produzione, nelle vendite o nella finanza,ma non è un esperto in ambiente o nell’ inflazione (nel caso per esempio non decida di effettuare un aumento di prezzo che i suoi prodotti potrebbero sostenere sul mercato ,solo al fine sociale di non contribuire ad aumentare l’inflazione)
Spetta al Governo, che ha la legittimazione e la capacità di occuparsi dei problemi sociali e non ai managers delle società private. L’eventuale lentezza dell’azione governativa deriva comunque dalla necessità di contemperare le esigenze di tutte le parti coinvolte e convincere almeno la maggioranza degli elettori,attraverso procedure democratiche Lo stesso argomento relativo ai managers si applica anche agli azionisti che richiedono alle proprie società di perseguire fini sociali. In realtà ciò implica che alcuni azionisti cerchino di far contribuire altri azionisti,a cui non interessa,al raggiungimento di fini sociali; nel caso che ci riescano essi in pratica impongono tasse sugli altri azionisti. Il principio politico sottostante il meccanismo del mercato è l’unanimità. Nessuno obbliga nessun altro e la partecipazione è volontaria sia a livello individuale che di gruppo. Il principio sottostante il meccanismo politico invece è la conformità;l’individuo deve servire un interesse sociale più generale , sia che venga determinato da una chiesa,dalla maggioranza o da un dittatore. Gli individui possono avere un voto ma se sono battuti devono conformarsi. In alcuni campi la volontà individuale deve cedere ai fini sociali. La dottrina della”corporate social responsibilty” (CSR) estende però il raggio d’azione della politica a tutti i campi e non differisce sostanzialmente dalle filosofie collettiviste e pertanto la dottrina della CSR deve essere rigettata come sovversiva in una società libera. L’Autore conclude che c’è solo una responsabilità del mondo degli affari:” usare le sue risorse ed impegnarsi in attività dirette ad aumentare il proprio profitto fino al punto in cui rientra nelle regole del gioco e cioè finché ingaggia una libera competizione senza inganno e senza frode”
Nonostante queste critiche il concetto di Responsabilità sociale dell’impresa ( CSR ) si è sviluppato ed evoluto ed ha avuto una teorizzazione nel saggio di a R. Edward Freeman nel suo saggio “Strategic Management: a Stakeholder Approach”, Pitman, London 1984.
In particolare si è cercato di unire la logica del profitto e quella della responsabilità sociale (CSR) affermando che un’ impresa che adotti un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders) coglie anche l’obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e massimizzare il profitto di lungo periodo. Un prodotto, infatti, non è apprezzato unicamente per le caratteristiche qualitative esteriori; il suo valore è stimato in gran parte per le caratteristiche non materiali, quali le condizioni di fornitura, i servizi di assistenza e di personalizzazione, l’immagine ed infine la storia del prodotto stesso. La consapevolezza, dei produttori e dei consumatori, circa la centralità di tali aspetti nelle dinamiche competitive e la “tracciabilità storica” della catena dei processi che hanno portato alla realizzazione del prodotto stanno attualmente guadagnando l’attenzione dei vari attori presenti sul mercato. Risulta pertanto evidente come l’impegno “etico” di un’impresa sia entrato direttamente nella cosiddetta catena del valore prospettando così l’utilizzo di nuovi percorsi e leve competitive coerenti con uno “sviluppo sostenibile” per la collettività. All’ interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno, infatti, un’esistenza a sé stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, tra cui spicca sicuramente una società civile molto attenta all’ operato imprenditoriale. E’, quindi, di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno, verso i cosiddetti stakeholders (soggetti interessati, per es. Organizzazioni non governative, sindacati, mass-media ecc.). Nei sistemi di gestione aziendale, l’attenzione agli stakeholders è divenuta di importanza cruciale per le imprese e spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni positive con tali soggetti ( stakeholders ) può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa.
Questa visione però sembra abbastanza confusa in quanto non si capisce quale è il fine e quale è il mezzo,intendendosi come fine quello che non può essere utilizzato come mezzo per un fine ulteriore. Alla fine le due teorie, quella di Friedman e quella della Responsabilità sociale dell’impresa ( corporate social responsibility – CSR ) coincidono se il profitto (di breve o di lungo periodo) è il fine ultimo dell’adozione di politiche di responsabilità sociale, se invece si vuole dare alle imprese (ed ai managers) l’obiettivo ultimo di raggiungere fini sociali, li si investe di un ruolo politico di cui non hanno né legittimazione né capacità né processi adeguati per espletare . Al di là delle dichiarazioni formali dietro una visione c’è il liberismo e dietro l’altra il collettivismo. Probabilmente l’errore è nel cercare di dare alle imprese un fine oggettivo, al di là di quelli stabiliti dalla legge, corrispondente alla proprie visioni politiche.
Le imprese non hanno un fine :i fini li hanno solo gli uomini ! L’attribuzione di un fine oggettivo alle imprese è una mistificazione che tende a far sì che gli uomini che lavorano in esse o hanno interessi in esse (siano stakeholders o shareholders ) si comportino in conformità a delle ideologie politiche (logica del profitto o logica collettivista, che spesso è poi dittatoriale.) Quanti errori sono stati fatti in nome della responsabilità sociale delle imprese (CSR): dall’ abbandono del nucleare, che sta consegnando i mondo in mano agli arabi o ai russi, alla contrapposizione acritica agli organismi geneticamente modificati che potrebbero aiutare a sfamare il mondo o a fornirgli energia. Non a caso il sig .LULA,presidente illuminato del Brasile,anche se indubbiamente uomo di sinistra, ha risollevato le sorti degli agricoltori del suo paese liberalizzando alcune coltivazioni transgeniche ed ha lanciato un nuovo programma per il nucleare.
Tutto ciò premesso, occorre liberare l’impresa da queste mistificazioni ed adottare un concetto umanistico dell’impresa, considerarla in modo allargato, come centro di imputazione di rapporti umani, sia interni che esterni. Sotto questo profilo il fine dell’impresa non è altro che la sommatoria dei fini degli uomini che hanno una posta concreta nell’ azienda (stakeholders, inclusi ovviamente gli azionisti) ponderata per il potere che essi hanno nella stessa.
Questo concetto responsabilizza tutti, soprattutto chi ha più potere,nel conservarne il valore sul lungo periodo e nel trattare i propri simili come un fine e non un mezzo, senza nascondersi dietro finzioni come il profitto o la responsabilità sociale ( CSR ) ma prendendosi in prima persona la responsabilità delle proprie azioni nei singoli casi concreti e di fronte a tutti.Non sembra infatti giusto adottare un concetto schizofrenico dell’uomo che, quando varca la porta dell’azienda con la sua “divisa “(ai mie tempi eravamo tutti con la ventiquattore, che non conteneva niente o documenti lasciati lì da settimane e che comunque a casa non si guardavano) può comportarsi diversamente da quando è fuori dell’azienda. Anche sul lavoro l’uomo è sempre se stesso e non può sfuggire alla responsabilità di cercare la coincidenza delle contraddizioni tra il suo io ed il non io, mettere in croce il suo individuum ed il suo sexus per trovare un punto d’incontro sempre più alto tra le sue istanze originarie e creative e quelle degli altri , in primis gli azionisti ed il consiglio di Amministrazione ma anche tutti gli stakeholders.

Giuseppe Tarditi