Durata del processo: legge Pinto

Il superamento della durata del processo, se non è ragionevole, viola i diritti umani riconosciuti dalla comunità Europea.

Come è noto la Convenzione Europea dei Diritti Umani firmata anche dall’ Italia, all’art 6 , relativo all’ equo processo, stabilisce che i processi devono avere una durata ragionevole. Dalla giurisprudenza europea formatasi su tale norma la durata ragionevole viene fissata in circa quattro-cinque anni per due gradi di giudizio,a seconda della complessità dello stesso ( per es. testimonianze, consulenze tecniche d’ufficio).

In tali tempi non vanno conteggiati  quelli persi a causa dell’inerzia eccessiva  delle parti ma vanno compresi anche quelli richiesti dall’utilizzo di ausiliari, anche se le lungaggini derivano da colpa loro, tipico il caso di Consulenze tecniche d’ufficio.  Non è neppure una scusante la carenza  di strutture o di organico in quanto l’ordinamento deve essere attrezzato per garantire comunque una durata ragionevole ed il responsabile del superamento dei termini è lo  Stato nel suo complesso,anche quello organizzativo.

Lo Stato italiano è quello che presenta di gran lunga il maggior numero di inadempienze, nonostante che i ricorsi siano probabilmente una piccola minoranza rispetto alle violazioni. A causa di ciò l’Italia ha subito molte condanne con un duplice effetto: che ha dovuto pagare notevoli somme per il risarcimento del danno e che ha subito un grave danno di immagine oltre che ad aver contribuito ad intasare l’attività della Corte Europea dei diritti umani, con sede a Strasburgo,l’organismo che giudica sui ricorsi per le violazione dei diritti stabiliti dalla Convenzione omonima .

Risarcimento

 Il risarcimento si divide in due tipi fondamentali: danno patrimoniale e danno morale.

Per quanto riguarda il primo, poche sono le pronunce che l’hanno riconosciuto in quanto è difficile dimostrare il nesso di causa –effetto tra la non ragionevole durata ed il danno sofferto,mentre per il danno morale ,il problema era di quantificarlo.

L’art .13 della Convenzione  stabilisce che il risarcimento deve essere effettivo . Sulla base di ciò il criterio guida  della giurisprudenza della Corte è stato quello di correlare il danno morale  della durata dei processi, e si è  formata una regola non scritta che quantifica il risarcimento in 1000-1500 euro, a seconda della gravità del danno subito (per esempio lesione dell’onorabilità ,in caso di processi per fallimento )per ogni anno di durata.

La legge 89/2001

Per rispondere alle continue condanne di violazione dei diritti umani, spinto anche dalla Comunità europea,lo Stato italiano con la legge 21 marzo 2001 n. 89  (legge Pinto), ha  fornito un rimedio interno ,il cui scopo era quello di attribuire ai cittadini  una tutela interna ,senza dover ricorrere alla Commissione europea,con gli ovvii vantaggi conseguenti . Tale rimedio consiste fondamentalmente  nel ricorso alla Corte d’Appello di un distretto diverso (secondo lo schema previsto dal codice di procedura penale sulle competenze incrociate- tabella A richiamata dall’art. 1 delle norme di attuazione) ) da quello in cui si è svolto il processo  contestato . Contro la decisione della Corte d’appello è ammesso il ricorso per Cassazione.

Nonostante la data di nascita corrispondente all’inizio della Primavera,non è stata una nuova Primavera per la Giustizia italiana.  Purtroppo l’applicazione della stessa è stata fatta in maniera vergognosa ,diminuendo se non  quasi annullando la tutela del cittadino. In particolare in alcuni casi si è negata la tutela sulla base del fatto che si negava l’esistenza della prova di un danno morale o  del nesso di causa ed effetto tra la durata eccessiva ed il danno morale,come se l’art. 6 della convenzione europea non avesse già di per sé stabilito che la violazione della ragionevole durata del processo violava uno specifico interesse ritenuto meritevole di tutela, e quindi la sua violazione causava un danno specifico.Non solo ma la Corte europea aveva quantificato in maniera abbastanza definita  con la sua giurisprudenza pretoria  questo danno morale specifico in 1000-1500 euro per anno di durata, proprio sulla base anche dell’art.13 della Convenzione che imponeva che il risarcimento fosse effettivo. Per questo deve essere riprovato l’andazzo ( non mi viene un altro termine) generale di svuotare sul piano pratico la tutela precedente attribuendo dei risarcimenti quasi simbolici e di gran lunga inferiori a quelli che si sarebbero ottenuti dalla Commissione europea, eludendo così  la ratio stessa della legge.( numerosi i casi di attribuzione di un decimo o un ventesimo di quanto avrebbe attribuito la Corte Europea! conosco il caso di attribuzione della somma di 1000 euro per un processo durato ventun anni in primo grado)

Il peggio è che la stessa Cassazione ha avvalorato tale comportamento delle corti d’Appello trincerandosi dietro il fatto che la valutazione del quantum  era un giudizio di merito  su cui la stessa non poteva intervenire.

La conseguenza è stata che i cittadini,dopo aver speso notevoli  somme in spese legali  per i ricorsi,anche in Cassazione,di cui si era  stabilita la necessità in quanto si dovevano   esperire le vie interne prima di rivolgersi alla Corte europea, si sono  comunque trovati  costretti a  rivolgersi a quest’ultima per avere giustizia. La  Corte Europea ovviamente ha ribadito l’inefficacia di quei presunti risarcimenti e quindi ha  condannato lo Stato italiano a corrispondere le somme dovute secondo i criteri “europei”, sventando così la manovra elusiva, che ha deteriorato ulteriormente l’immagine dell’Italia.

La Sentenza sezioni Unite della Cassazione  n. 31/2008 del 7 gennaio 2008 n. 31

Per fortuna  sona intervenute le sezioni Unite della Cassazione con la Sentenza n. 31/2008 del 7 gennaio 2008 n. 31 che, facendo giustizia della passata giurisprudenza, hanno stabilito i seguenti principi

Premesso che i diritti protetti dalla CEDU devono trovare anzitutto attuazione e tutela in sede nazionale, con il ricorso agli strumenti apprestati dai singoli ordinamenti, rileva che con l’impugnato decreto si è stravolto il rimedio alla legge n. 89/2001, pervenendosi ad una liquidazione del danno non patrimoniale chiaramente violativa dei parametri e standard valutativi elaborati dalla Corte europea.

La questione di massima posta dal presente ricorso concerne l’ambio del sindacato della Corte di cassazione sui decreti della Corte di appello che determinano il quantum dell’equa ripartizione spettante al ricorrente a titolo di danno non patrimoniale; in particolare, se possa costituire vizio della liquidazione del danno la mancanza di relazione ragionevole della somma accordata dalla Corte di appello ai parametri di commisurazione della equa soddisfazione (art. 41 CEDU) utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in casi simili. La soluzione della questione di massima richiede che si precisi quale effetto giuridico debba attribuirsi nella liquidazione del danno non patrimoniale da indennizzare in applicazione della legge n. 89/2001, ai criteri seguiti dalla Corte europea nella riparazione dello stesso tipo di danno, quindi alle pronunzie della stessa Corte sulle conseguenze della violazione del termine ragionevole di durata del processo.

Il che, a sua volta, esige la considerazione della lettera e delle finalità della legge 89/2001.

Come chiaramente si desume dall’art. 2 comma 1, della detta legge, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto di equa riparazione da essa prevista è costituito dalla violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

La legge n. 89/2001 cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto di indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU.

Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle.

Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89/2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico che pertanto finisce con l’essere conformato dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani.

L’opposta tesi diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la legge n. 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione (in cui è compreso il processo entro un termine ragionevole).

Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne).

Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. E tale protezione deve essere effettiva (art. 13 della CEDU), e ciò tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo.

 La tesi secondo cui, nell’applicare la legge n. 89/2001, il giudice italiano può seguire un’interpretazione non conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell’art. 6 CEDU la cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto di indennizzo attribuito alla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea ottenga da quest’ultimo Giudice l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU.

Il che costringerebbe l’interessato ad un duplice giudizio, uno davanti al giudice nazionale per chiedere l’indennizzo previsto dalla legge n. 89/2001 e l’altro davanti alla Corte europea per ottenere l’integrazione della ripartizione che il diritto interno ha consentito, in ipotesi, in modo soltanto incompleto (secondo il giudizio della stessa Corte europea).

In tal modo il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89/2001 diverrebbe sostanzialmente inutile e si realizzerebbe una violazione del menzionato principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo.

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La legge n. 89/2001 non pone alcuno ostacolo a tale dovere di prendere a punto di riferimento dell’equa riparazione del danno non patrimoniale la giurisprudenza della Corte europea, perché detta legge richiama, attraverso l’art. 2056 c.c., l’art. 1226 c.c., che prevede una valutazione con criteri equitativi, i quali possono essere commisurati in linea generale, all’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU.

Naturalmente  la Corte  Europea ha  precisato, con specifico riferimento alla ripartizione del danno non patrimoniale, che il giudice nazionale può allontanarsi da un’applicazione rigorosa e formale dei criteri adottati dalla Corte europea, ma pure conservando un margine di valutazione, non può liquidare somme che non siano in relazioni ragionevoli con la somma accordata dalla Corte negli affari simili, restando quindi fermo il suo dovere di conformarsi alla giurisprudenza della Corte nella sostanza, accordando somme conseguenti

Consegue che i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati alla Corte europea non possono esssere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in casi simili.

La giurisprudenza più recente ha quindi fissato in 100-1550 euro la somma per anno per i danni non patrimoniali ( Cass. 22 dicembre 2006 n. 27503, 15 novembre 2006 n. 24356, 21 aprile 2006 n. 9411, tra molte ), applicando la misura minima di essi in difetto di elementi che consentano di elevarla .

Sono inoltre dovuti gli interessi legali  dalla domanda. non spettando la rivalutazione, trattandosi di debito di valuta (cass.n. 31/2008 del 7 gennaio 2008 n. 31 ),conclusione quest’ultima abbastanza discutibile.

Ancora più discutibile, la discrepanza tra la giurisprudenza europea  e quella italiana sul fatto che ai fini dell’indennizzo del danno non deve aversi riguardo, ad ogni anno di durata del processo presupposto, ma soltanto al periodo eccedente il termine ragionevole di durata , come afferma  cass. n. 21597 del 2005 e  da ultimo  Cassazione sez I civile sentenza 3 gennaio 2008 n.14, che ribadisce:

“ essendo il giudice nazionale tenuto, nella ipotesi in esame, ad applicare la legge dello Stato, e, quindi, il disposto della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a), non potendo darsi alla giurisprudenza della Cedu, in questione, diretta applicazione nell’ordinamento giuridico italiano con il disapplicare la norma nazionale su indicata (come invece sarebbe possibile per la normativa comunitaria), avendo la Corte Costituzionale chiarito, con le citate sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione EDU non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti, è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di uniformarsi ai parametri Cedu, esclusi i casi, come quello di specie, in cui siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omesso medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri”

Tale principio infatti  è condivisibile  nei casi  in cui non intacca  in modo determinante il principio di effettività del risarcimento (art.13  della Covenzione  Europea) e comunque  garantisce un risarcimento almeno in linea con quanto garantisce la tutela europea. Altrimenti verrebbe meno il principio di sussidiarietà con la mancata improcedibiltà del ricorso europeo sul presupposto della soddisfacente tutela interna. Sarebbe davvero un peccato ora che la Corte europea ha escluso la sua competenza per le cause posteriori alla sentenza delle sezioni Unite sopra citata ,in quanto garantiva una effettiva tutela ma l’ha ammessa,anche se non è stato esperito il rimedio interno con il ricorso in Cassazione,  prima di tale sentenza sulla base che tale ricorso era inefficace.

Al di la dei ragionamenti formali se non si rispetta in modo sostanziale la tutela che il cittadino ha sulla base della Convenzione  Europea, si ammette  l’inefficacia almeno parziale, della legge Pinto, che quindi non può funzionare da rimedio interno in senso sostanziale e  quindi impedire il ricorso sul piano europeo. Si corre così il rischio di rimettere tutto in gioco! Bisogna avere l’onestà intellettuale di interpretare  la legge Pinto come un passaggio dalla tutela europea alla tutela interna, non come una scorciatoia per diminuire l’entità dei risarcimenti spettanti per Trattato ai cittadini europei per la violazione dei diritti umani.Al di là del problema economico,c’è un problema culturale: La Magistratura italiana fa fatica,direi quasi visceralmente, a considerare la violazione del principio  della ragionevole durata dei processi,come una vera e propria violazione dei diritti umani.
11-05-2008

Avv.Giuseppe Tarditi

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Per l’esame della sentenza delle sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1340 vedi l’art. Legge Pinto- sentenza Sezioni unite 26 gennaio 2004 n. 1340