Parlamento europeo: evoluzione e problemi

Prima di affrontare la questione del Parlamento europeo, dobbiamo sottolineare che l’idea odierna di Europa non si poggia su un’idea di un ordinamento giuridico-politico universale, in quanto ogni stato rivendica un proprio fondamento etico-culturale e attualmente è un’unione che si fonda su basi eminentemente economiche ed utilitaristiche.

Dalla storia emerge che proprio per evitare i contrasti che hanno portato alle due guerre mondiali Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nel famoso manifesto di Ventotene del 1941 espressero la necessità di creare uno stato sopranazionale. Con il congresso dell’Aja del 1948 , sotto la presidenza di Churchill, fu presentato il progetto di un’Assemblea dei rappresentanti dei paesi aderenti al progetto federalista, in seguito ad elezione diretta. Anche se il progetto non fu approvato per il clima politico sfavorevole, comunque si incominciò a parlare di un’ Assemblea di tipo parlamentare. Un passo in avanti si ebbe nel 1952 con l’istituzione della CECA ( Comunità europea carbone acciaio), in seguito al trattato di Parigi stipulato tra Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e gli stati del Benelux.

Il suo promotore Jean Monnet ipotizzava un progetto graduale del processo di costruzione europea. Si incominciò con la creazione di un’assemblea parlamentare, denominata Assemblea comune, composta da membri designati dai parlamenti nazionali, per salvaguardarne l’aspetto democratico, almeno sul piano formale, anche se di fatto aveva poteri rigorosamente consultivi e non vincolanti per non intralciare le decisioni dell’Alta Autorità. L’unico atto vincolante fu la “mozione di censura”(ex art.24 del trattato CECA), nei confronti dell’alta Autorità, in sede di presentazione all’ Assemblea da parte di quest’ultima della relazione annuale. Ciò determinava comunque un’interazione tra le due istituzioni, che, seppure non obbligatoria, in quanto l’Alta Autorità non era costretta a consultare l’ Assemblea, ha avuto effetti pratici notevoli soprattutto durante la presidenza di Jean Monnet, particolarmente sensibile alla costruzione europea e quindi intento a cercare una mediazione tra interessi sopranazionali (espressi dall’ Assemblea) e quelli nazionali (portati avanti dall’Alta Autorità). Per questi motivi e per la sua forte importanza sul piano simbolico il suo ruolo non deve essere sottovalutato, anche perché a buon ragione questa assemblea può essere considerata come progenitore del Parlamento europeo. Rimane comunque il problema della scarsa rappresentatività, ma un passo decisivo in tal senso fu fatto con il trattato di Roma del 1957, grazie a Gaetano Martino, allora ministro degli esteri italiano, che introdusse con l’art.138, l’elezione dell’assemblea parlamentare a suffragio universale, anche se in concreto ciò si realizzò solo nel 1979.
Per lungo tempo furono attribuiti all’ Assemblea poteri legislativi limitati alla facoltà di esprimere opinioni sulle proposte della Commissione, con pochissimo impatto sulla attività legislativa, cosa che sarebbe rimasta immutata fino all’Atto unico europeo del 1987. Anche se i poteri sostanziali rimasero invariati, alcuni fatti però accrebbero notevolmente la rilevanza dell’Assemblea. Con deliberazione del 30 marzo 1962 l’Assemblea parlamentare europea si era auto attribuita la definizione di Parlamento Europeo e ciò contribuì a dare una maggiore autorevolezza morale dell’istituzione e a favorire un maggior coinvolgimento dei propri membri e delle altre strutture, specialmente della Commissione, anch’ essa portatrice di interessi sopranazionali. Essa poteva trovare un alleato nel Parlamento, munito di un accresciuto prestigio nei confronti del Consiglio dei Ministri, portatore degli interessi delle varie nazioni. Un tale prestigio fu corroborato dalla fusione delle 3 comunità (CEE,CECA,EURATOM) nel 1965 e soprattutto con l’elezione diretta del 1979 la rappresentatività ebbe una consacrazione democratica formale.
Dal punto di vista sostanziale un incremento dei poteri consultivi e di controllo sul bilancio è stato attribuito al Parlamento europeo solo dal Trattato di Lussemburgo del 1970 e dalle conseguenti modifiche ed interpretazioni che sono poi confluite in un accordo tra Consiglio e Parlamento, per cui il Consiglio si impegnava a comunicare all’ Assemblea ufficialmente la bozza del bilancio, trasmessagli dalla Commissione e ciò favoriva la discussione tra una delegazione del Parlamento , il Consiglio e la Commissione. Il Consiglio si impegnava inoltre a partecipare sia alle riunioni della Commissione finanze e bilancio del Parlamento, sia alla discussione in sede plenaria del progetto di bilancio in seno al Parlamento. Si apriva così la possibilità di un coinvolgimento dello stesso sin dai primi stadi delle decisioni e si avviava la possibilità di una effettiva interazione tra gli istituti sopranazionali ed il Consiglio.
Come si è visto un momento particolarmente significativo è stato quello dell’elezione diretta del 1979. Essa però fu molto problematica, in quanto da una parte frenava il timore da parte di alcuni governi nazionali per un eccessivo spostamento di potere dal piano intergovernativo al piano sopranazionale, in seguito alla legittimazione del Parlamento europeo tramite il voto popolare, dall’ altra per gli europeisti il rilancio dell’Unione doveva passare necessariamente per il potenziamento del Parlamento attraverso la sua elezione diretta. E’ interessante notare come la data delle elezioni dirette sia stata unicamente decisa dai capi di stato e di governo, senza considerare le richieste dell’Assemblea parlamentare ed è importante osservare che la decisione politica è stata presa con una procedura al di fuori dei trattati, per cui secondo alcuni, per esempio Rambaud, in Annuire francaise de droit international, le elezioni sarebbero state una mistificazione ed un pretesto ideologico. Non bisogna comunque sottovalutare il valore simbolico, politico e la legittimazione popolare almeno apparente che, sebbene non abbia avuto un’immediata ricaduta, ha favorito però una maggiore autorevolezza ai fautori di una integrazione. Anche se spesso il voto verteva più sull’ operato dei singoli governi nazionali, è stata comunque un’occasione per far conoscere ai cittadini l’esistenza del Parlamento europeo e per farli sentire in qualche modo cittadini d’Europa.
Perché i poteri del Parlamento aumentassero concretamente bisognò arrivare al 1 luglio 1987, con l’entrata in vigore dell’AUE. Esso rappresentò, a quasi 30 anni dalla fondazione della comunità, la prima riforma organica del trattato di Roma. Confermò infatti il ruolo politico del Parlamento europeo, attribuendo ad esso poteri legislativi non più consultivi, ma quasi decisionali, anche se limitati a casi particolari ed istituendo una nuova procedura di cooperazione che dava al Parlamento la facoltà di proporre emendamenti alle proposte del Consiglio ed esprimere una sorta di veto sul provvedimento nel suo complesso.
L’Atto però ha dato nuove competenze alla comunità europea, sottraendole ai parlamenti nazionali, senza peraltro trasferirli a quello europeo e aggravando così il deficit democratico, con la diminuzione del controllo dei Parlamenti nazionali sui rispettivi governi, che attraverso la legislazione europea, che aveva efficacia diretta nei singoli Stati, riuscivano a far passare leggi verso le quali avrebbero trovato resistenza da parte dei rispettivi Parlamenti. E’ stato quindi favorito un generale spostamento dell’equilibrio dei poteri verso il Potere Esecutivo. Sul piano europeo comunque, anche se deludente nell’ ottica federalista, complessivamente il bilancio è positivo, in quanto ha dato un ruolo al Parlamento a livello sopranazionale, sia pure ancora minoritario.
Un altro passaggio importante nell’ evoluzione di questa Assemblea è rappresentato dal trattato di Maastricht del 1992, che prevedeva un aumento di poteri in tutti i tre campi di competenza del Parlamento europeo: fu rafforzato il potere legislativo, attraverso la procedura di co-decisione, che richiedeva l’approvazione non solo del Consiglio dei ministri, ma anche del Parlamento in tutte le materie previste dal trattato di Roma; veniva concessa all’Assemblea parlamentare con l’art. 138 B la possibilità di richiedere eventuali proposte alla Commissione per l’elaborazioni dei vari atti, riconoscendole in pratica così un’indiretta facoltà di iniziativa legislativa. Veniva rafforzato anche il potere di controllo sull’ esecutivo attraverso la consultazione del Parlamento da parte degli stati membri su una loro candidatura per la presidenza della Commissione ed attraverso l’approvazione del Parlamento stesso di tutto il collegio formato dal presidente e dai commissari. Addirittura il presidente di turno Kohl, in occasione dell’insediamento della commissione Santer, chiarì che in caso di mancata approvazione la Commissione sarebbe stata ritirata. Con uno slittamento di poteri di negoziazione dalla Commissione al Parlamento c’é stata quindi un’evoluzione di quest’ultimo da organo consultivo a soggetto protagonista di molti atti dell’Unione .
Se con il Trattato di Amsterdam del 17 giugno 1997 sono stati risolti soprattutto problemi tecnici, legati alla procedura di co-decisione, che hanno favorito un miglioramento dell’efficienza legislativa del triangolo Commissione-Consiglio-Parlamento, il trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 aumentò il peso politico del Parlamento europeo, stabilendo che il suo parere diventava necessario per il perfezionamento dell’investitura del presidente della Commissione, per cui il rapporto tra queste due strutture divenne un rapporto fiduciario, anche se limitato al momento iniziale dell’investitura e non continuativo, come nelle forme di governo parlamentare.
L’atto più importante comunque è stata la Costituzione europea, firmata a Roma il 29 ottobre 2004, che apportò importanti novità. E’ da notare che essa segue le tradizioni di ingegneria costituzionale dei diversi stati europei, ponendo le norme relative al Parlamento all’ inizio della parte dedicata al funzionamento degli organi, per sottolineare la sua centralità nella forma istituzionale. Secondo gli artt.1-19 I comma il Parlamento esercita, congiuntamente al Consiglio dei ministri, la funzione legislativa e di bilancio, nonché funzioni di controllo politico e consultive. La procedura legislativa ordinaria è regolata dall’ art.33 della parte I della Costituzione e dall’art. 298 della parte III e si caratterizza dalla compartecipazione del Parlamento e del Consiglio dei ministri alla deliberazione della legge, configurandosi così a livello comunitario, sia pure ad uno stadio embrionale, un sistema bicamerale tra Parlamento e Consiglio dei ministri che si ritrova anche riferito al potere di approvazione del bilancio, secondo gli artt.1-52.
Il punto chiave deriva dall’ equilibrio del triangolo istituzionale, composto da Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, che rappresentano rispettivamente i cittadini europei, gli stati nazionali e la stessa comunità, per cui è necessario stabilire regole nel rispetto del principio dell’equilibrio istituzionale tra legislativo ed esecutivo. Padoa Shioppa comunque, pur riconoscendo che la Costituzione europea relativamente al Parlamento prevede in modo più compiuto la procedura di co-decisione legislativa, fa notare che ad esso non vengono pienamente conferiti quei poteri importanti che caratterizzano un parlamento moderno, come quello per esempio di varare un’imposta europea. Altri esponenti dottrinali, come Camilletti, in Istituzioni dell’europa del futuro, e Florida, in “La forma di governo nel progetto della convenzione”, riconoscono al Parlamento poteri cogenti, anche se è da osservare che la Costituzione è lo sbocco di un processo che ha portato l’Assemblea ad abbandonare la sua originaria funzione di assemblea internazionale, rappresentante dei Parlamenti nazionali, e a diventare rappresentanza dei popoli riuniti nella comunità. Di conseguenza il Parlamento europeo non è più l’insieme dei rappresentanti di diverse nazioni, ma l’organo eletto dai cittadini europei, diventando così la camera bassa di un Parlamento federale, in cui sono rappresentati cittadini e stati e ne è l’ esempio chiave la ripartizione del potere legislativo tra Parlamento e Consiglio.
Dall’ excursus storico e da una considerazione filosofica sugli elementi caratterizzanti il Parlamento si possono enucleare alcuni problemi critici, primo fra tutti quello sull’ unicità del nomen iuris Parlamento. Se il problema della sovranità e centralità del Parlamento è stato risolto dal costituzionalismo (vedasi ad esempio l’art. 67 della nostra Costituzione), rimane infatti come problema essenziale quello dell’unicità del Parlamento in relazione all’ affermarsi in questo periodo del senso di appartenenza degli individui a diversi demoi, sia sopranazionali, come la Comunità europea, sia infranazionali, come le regioni. Per quest’ultimo caso la Corte costituzionale, con le sentenze 106 e 306 del 2002, stabilisce che il nomen iuris Parlamento spetta solo all’Assemblea nazionale e non alle Assemblee regionali.
Per quanto riguarda invece il Parlamento europeo, la Costituzione italiana non lo cita, per cui c’è uno stato di indifferenza giuridica. Inoltre la norma che stabilisce la cittadinanza europea, oltre che quella nazionale, riconosce implicitamente l’appartenenza dei cittadini a due demoi, nazionale ed europeo e tale cittadinanza si estrinseca nell’ elezione diretta del Parlamento europeo. Di conseguenza il nomen iuris Parlamento risulta adeguato, sia per l’indifferenza giuridica, sia perché comunque l’art.11 della nostra Costituzione giustifica la cessione di quote di sovranità nazionale ad organismi che abbiano come finalità la tutela della pace tra i popoli, come è appunto nelle finalità originarie della comunità europea.
Anche se ora sul Parlamento europeo convogliano spinte verso un’unificazione sopranazionale da un lato e dall’ altro in senso nazionale, è pur vero che nella sua evoluzione ha acquisito sempre di più quelle prerogative che la dottrina giuridica ritiene necessaria al concetto di Parlamento. Abbiamo visto infatti che c’è stata un’evoluzione che ha affiancato L’Assemblea al Consiglio nella gestione del potere legislativo, attraverso il procedimento di co-decisione, stabilito a partire dall’Atto Unico europeo, secondo una sorta di bicameralismo (Mazzoni Honorati per esempio, in Diritto parlamentare, parla di bicameralismo sostanziale). Il bicameralismo secondo la teoria costituzionalista svolge una funzione di integrazione della rappresentanza politica, necessaria proprio in un ordinamento di complessità politica e di scarsa omogeneità sociale.
Un altro problema critico è rappresentato dal distacco tra i cittadini e l’Unione che provoca il cosiddetto deficit democratico. Tale problema é aggravato dal fatto che la giurisprudenza europea ha portato alla prevalenza del principio del diritto comunitario nei confronti del diritto interno degli stati.In tal modo i Governi nazionali, legiferando sul piano europeo tramite il Consiglio dei Ministri, hanno inciso sugli ordinamenti giuridici degli stati membri, bypassando i Parlamenti nazionali.
Poiché il consiglio dei ministri ha spesso delegato effettivamente il suo potere ai vari comitati tecnici, si è affermata la cosiddetta Comitologia, per cui i “poteri forti” hanno influenzato la politica comunitaria e gli stessi ordinamenti giuridici degli stati. Negli anni settanta ed ottanta il Parlamento europeo non ha svolto funzione legislativa, ma solo consultiva nei confronti delle norme che la Commissione europea presentava al Consiglio dei ministri, che opera in rappresentanza degli stati, per cui i provvedimenti di un organo governativo, il Consiglio dei ministri, prevalevano sulle leggi adottate da un Parlamento, eletto liberamente dai cittadini, in netto contrasto con i principi democratici. Però anche se l’Atto unico, il trattato di Maastricht, il trattato di Amsterdam e la Costituzione europea del 2004 hanno equiparato il potere del Parlamento a quello del Consiglio, è stato colmato il deficit solo da un punto di vista legislativo, di fatto però, rispetto ai sistemi democratici parlamentari, in cui il potere legislativo è esercitato esclusivamente dal Parlamento, nel caso dell’Unione europea è esercitato congiuntamente dal Consiglio dei ministri che rappresenta solo indirettamente i cittadini. Inoltre il deficit democratico deriva anche dall’ assenza di prerogative che mettano il Parlamento europeo in grado di controllare la gestione comunitaria da parte del Consiglio dell’Unione. Infatti non c’è connessione tra elezione del Parlamento europeo e governo dell’Unione. Gli stati nazionali hanno ceduto delle competenze all’ Unione, che spettavano ai Parlamenti nazionali, però, una volta trasferite, non sono state più riservate all’ organo di rappresentanza popolare, ma sono diventate appannaggio dei governi nazionali, in seno al Consiglio dell’Unione. Di conseguenza aumentare le prerogative del Parlamento non risolverebbe il problema, in quanto perché esso sia simile a quelli nazionali, bisognerebbe attribuirgli i caratteri costituzionali comuni ad uno stato democratico, il che sarebbe possibile trasformando l’Unione in uno stato federale e riservando il potere legislativo solo ad organi eletti. Un tale passo se non controproducente in assoluto appare oggi perlomeno prematuro. Non esiste infatti ancora un substrato popolare unico come base di questo stato federale, in quanto oggi l’Unione è un insieme di demoi che cedono parte della loro sovranità per fini comuni condivisi. Un’integrazione troppo spinta porterebbe pertanto ad accentuare il rifiuto della Comunità e le spinte all’ uscita ( per usare lo schema di Weiler di correlazione inversa tra Voce ed Uscita) ed addirittura ad un regionalismo invertito (secondo il concetto di Cartabia e Weiler), allontanando i cittadini non solo dalla Comunità europea, ma anche dal governo nazionale centrale. L’Unione europea è un tertium genus, una comunità di popoli diversi, in cui si deve trovare un equilibrio tra poteri degli organi sopranazionali e quelli degli organi intergovernativi; tale equilibrio si può spostare verso una maggiore integrazione, ma tale processo deve andare avanti di pari passo con il progredire del senso di appartenenza dei cittadini alla comunità. Per far questo non basta l’approvazione formale da parte dei governi o dei Parlamenti dei diversi Trattati, occorre invece un coinvolgimento diretto dell’opinione pubblica e della volontà dei cittadini sugli argomenti che possono essere meglio affrontati sul piano europeo, come un’ autonoma politica estera, la difesa dei diritti umani, l’abolizione della pena di morte, l’immigrazione, l’importanza stessa dell’Unione ed i suoi pericoli. Per far questo occorre utilizzare forme di democrazia diretta, come i referendum per l’approvazione dei vari trattati, dopo discussione e dibattito popolare anche sui mass media. Benché il processo dei referendum nazionali potrebbe allungare i tempi di approvazione, alla fine si guadagnerebbe in condivisione e quindi ciò favorirebbe un miglior funzionamento delle istituzioni nel lungo periodo. 
Dott. Emanuele Tarditi