“Forse un mattino andando in un’aria di vetro” di Montale

Forse un mattino andando in un’aria di vetro è una poesia che Montale scrisse nel luglio 1923 e fa parte della sezione Ossi di seppia.

1..Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
2..arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
3..il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
4..di me, con un terrore da ubriaco.

5..Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
6..alberi, case, colli per l’inganno consueto.
7..Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
8..tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.

Forse un mattino andando in un’aria di vetro è formata da due quartine ( a rime alternate secondo lo schema ABAB CDCD) di endecasillabi (v.3 e 4), di alessandrini (v. 1, 6 e 7), e di versi doppi (formati da un settenario e da un ottonario,   v. 2 e 5).

Montale immagina  che una mattina in un’aria cristallina e secca (arida, v.2), mentre sta camminando, voltandosi indietro  (ciò che è alle spalle allude a ciò che non vediamo, a ciò che è nascosto),  vedrà compiersi un atto straordinario, il miracolo, v.2, che tanto si aspetta:  la rivelazione del mistero della vita.

 Ma la percezione è negativa: avverte,  anche se  solo per un attimo, la sensazione del nulla e del vuoto (il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro/di me,vv.3 e 4).. Da qui scaturisce l’idea del  non significato dell’esistenza e dell’assurdità dell’essere.

Per trasmettere questa improvvisa sensazione, il poeta ricorre al  correlativo oggettivo, cioé attraverso l’immagine concreta dell’ubriaco (un terrore da ubriaco, v.4) vuol far capire la paura di chi non ha punti di riferimento e barcolla  come un ubriaco.

Dopo questa breve ed improvvisa folgorazione s’accamperanno alberi, case, colli (vv.5 e 6). E’ importante  notare sia il termine s’accamperanno, che indica una sistemazione del tutto   provvisoria,  sia l’asindeto, alberi, case, colli, che dà il senso di una realtà che si ripropone in maniera rapida. E’ anche interessante notare come Montale abbia utilizzato termini astratti (miracolo, nulla, vuoto, terrore), quando descrive la rivelazione, mentre abbia utilizzato sostantivi concreti (alberi, case, colli) per la realtà.

Per il poeta quello che si vede è, però, una realtà ingannevole ed apparente, come lo sono  le immagini proiettate s’uno schermo (v.5). Ciò che su di esso appare è una metafora del mondo, dove ciò che si vede  è una realtà priva di senso, anche se a noi appare importante (l’inganno consueto, v.6).

In chiusura del componimento troviamo una forte avversativa, Ma, del v.7 : pur avendo avuto consapevolezza dell’inutilità del reale, il poeta dovrà andarsene zitto (v.7) con quello che egli definisce il suo segreto. La sua intuizione, infatti, essendo stata vissuta sul piano della percezione e non su quello intellettivo, è più difficile da far comprendere agli altri, ma soprattutto non è possibile comunicare con gli uomini che non si voltano (v.8), che, cioé, non mettono in discussione le loro certezze ( che se ne vanno sicuri, come scrive in Non chiederci la parola).